lunedì 28 maggio 2007

[Recensione] L'amore in gioco+Febbre a 90°


Non mi piace lo sport, quindi non mi piacciono i film sportivi. Io vivo bene la mia vita, loro esistono anche senza il mio contributo. Sfortunatamente molti attori che mi piacciono, prima o poi nella loro carriera, si infilano in un film sportivo. Quindi più volte mi sono sentita costretta a tapparmi il naso e a tuffarmi dentro a svariati polpettoni epico-sentimentali, per puro spirito di collezionismo. Per fortuna, alcuni sono risultati piacevoli e magari emozionanti, al contrario delle previsioni. Vai a sapere cosa mi passa per la testa…
Una sequela di motivi mi hanno portata alla visione dei film in oggetto. In L’amore in gioco c’è Jimmy Fallon. L’amore in gioco è il remake ammerigano di Febbre a 90°, con Colin Firth, dall’omonimo romanzo di Nick Hornby (uno dei migliori scrittori esistesti, a mio immodesto parere). Indipercui scatta il confronto. Parto in ordine cronologico di visione, tanto a voi non vi cambia un cazzo.
L’amore in gioco non ha un gran chè di diverso da qualsiasi rom-com (minchia quanto sono pigri sti americani, non hanno neanche abbastanza voglia di dire romantic comedy). Lui incontra lei, tutto va liscio fino a quando si scopre che lui è un fanatico del baseball. Uno di quei fanatici fastidiosi, che pianificano la propria vita a seconda delle trasferte della squadra, che ha dei biglietti ereditati (per cui ci fanno subire anche la parte famigliare - non poteva essere un semplice coglione che va allo stadio, eh no, doveva essere un orfano cresciuto da uno zio che poi crepa, poverino). Sicchè lei giustamente si rompe le palle, si mollano, si rimettono insieme, vivendo felici e contenti. Il tutto contornato da genitori borghesi (di lei), amici idioti (di lui - tra i quali il gay di Sex and the city, poco credibile come macho man), appartamenti niu-iorchesi fatti con lo stampino (entrambi), scarpe fighissime (lei, ovviamente).
Il minestrone lascia un po’ a desiderare ma ogni tanto spuntano dei lampi di genio, grazie alla presenza di Jimmy Fallon o alla direzione dei fratelli Farrelly, anche se decisamente sottotono. Le gag sono tutte più o meno prevedibili ma alcune sono decisamente divertenti, soprattutto quelle dove lei è moribonda e lui la assiste.
Jimmy Fallon è uno di quegli uomini che mi sposerei subito, anche per corrispondenza. Entrato a far parte del cast di Saturday night live giovanissimo, ne fa parte per almeno sei stagioni. È un fottuto genio della comicità. Provate a vedervi i suoi sketch dove fa il tecnico del computer aziendale. O le sue imitazioni di Mick Jagger. Quest’uomo ha bisogno di un programma tutto suo, ragazzi! E poi, adoro il suo naso. Diciamo che la confezione è più che ottima, è pure timidino quando lo intervistano. Drew Barrymore invece rimane incastrata allo stesso ruolo che ormai porta avanti da dieci anni (almeno prima faceva la ribelle tossica) adesso la svampita fashionista. Dilemma: fare bene una cosa mille volte o provarne una nuova e prendere una cantonata? Beh, giudicate voi.
Se uno non conosce la trama, i primi venti minuti sono molto divertenti, essendo all’oscuro della tara del protagonista, diventa un bel collage di situazioni, dai quali ci si aspetta fuoco e fiamme. Che non arrivano. Ma almeno abbiamo riso per almeno venti minuti.

Febbre a 90° è inglese, e questo dovrebbe dire tutto. Niente guest star favolose (come Stephen King nel precedente) ma solo attori insipidi che parlano parlano parlano. E non sempre dicono cose interessanti. Leggetevi il libro che è meglio. Anzi leggeteveli tutti quelli di Hornby.
Il protagonista è un Colin Firth frescone, uno di quegli ometti che invecchiando migliorano. Eccome. Spostato con un’italiana, ha chiamato i figli Luca e Matteo. Evangelico. Lui è sempre divertente, infatti non mi piace nei ruoli seri e impegnati. Al massimo va bene per quelli romantici, ma i mattoni, no.
I film inglesi si riconoscono subito perché sono tutti opachi. Sembrano costantemente fuori fuoco.
Una bella parte lasciata fuori da quello americano è l’amica femminista della protagonista (quella che potrei interpretare io quando e dove volete). Non so se ci sia nel libro (mi manca!) ma tanto è tutta farina del sacco di Hornby visto che cura la sceneggiatura.
C’è un cameo di Stephen Rea, l’attore più prezzemolo del cinema anglo-irlandese.
I due finali non mi hanno convinta. Tutto si risolve in un modo troppo deludente: in entrambi i casi le tizie si arrendono e se la mettono via. Nell’americano forse, lui si rende conto che è arrivato il momento di crescere un po’, ma nell’altro no. Ma allora il film, per che cavolo l’abbiamo fatto? Bah!

PS: i due film, in originale, hanno lo stesso titolo.

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